Francesco Pedrini nasce a Bergamo nel 1973. Attualmente è docente del corso di Disegno presso l’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo, dove precedentemente aveva intrapreso parte del suo percorso di studi. Ottenuta la prima laurea, consegue successivamente la magistrale allo IUAV di Venezia con una tesi intitolata La Galleria del Vento: ad attrarlo sono elementi intangibili, se non incorporei, come il vento appunto, la luce, etc., che rielabora in disegni atmosferici realizzati con le polveri, fotografie, proiezioni video e sculture piuttosto particolari: dispositivi di ascolto del cielo che formalmente sono l’unione fra trombe d’aria e strumenti musicali. Il nulla e l’infinito sono alla base della sua ricerca artistica, un cercare che avviene camminando, riflettendo.
«Nell’universo in espansione, le galassie più remote si allontanano da noi a una velocità così forte, che la loro luce non riesce a raggiungerci. Quel che percepiamo come il buio del cielo, è questa luce che viaggia velocissima verso di noi e tuttavia non può raggiungerci, perché le galassie da cui proviene si allontanano a una velocità superiore a quella della luce. Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei». Da questa frase di Agamben per Pedrini è partito un ragionamento che, per ovvie ragioni, non può che essere infinito.
Laura Baffi – Difficile non porsi domande di fronte all’Universo. Ma cosa di questo macro-tema ti ha affascinato – e immagino continui ad affascinarti – a tal punto da decidere di farne il perno della tua ricerca artistica?
Francesco Pedrini – All’inizio della mia ricerca artistica mi ero appassionato alle mappe e ai paesaggi simulati, ma poi ho sentito il bisogno di entrare in quelle mappe e di incontrare il reale. Proust diceva che «un buon sognatore va a verificare se il colore sognato sta effettivamente là». Sono partito per vivere fino in fondo l’esperienza dell’infinito e l’ho incontrato nei deserti d’altura in Argentina. Di giorno ero sconvolto dal paesaggio, mentre di notte dalla potenza del cielo stellato. L’Universo è un tema inflazionato, ma non m’interessa.
LB – La tua ricerca è atta a rendere concreto l’immateriale, alla cristallizzazione del dato effimero: non il momento antecedente, né quello successivo al fenomeno, ma l’istante epifanico. Ne sono conseguite immagini a metà tra raffigurazione e astrazione, che sono state esposte alla tua mostra personale Nebula (2016) presso la Galleria Milano, curata da Alessandra Pioselli, l’attuale Direttrice dell’Accademia di Belle Arti di Bergamo, dove hai studiato e dove lavori. Com’è avvenuto il passaggio da studente a docente?
FP – In modo inaspettato: Maria Grazia Recanati, la precedente Direttrice, mi ha dato fiducia appena laureato, l’unica condizione era che continuassi gli studi allo IUAV di Venezia. Per due anni ho insegnato a Bergamo e contemporaneamente ero studente a Venezia, ho fatto uso del dono della bilocazione… È stata un’esperienza indimenticabile. Per fortuna grazie anche a quella laurea e al mio percorso artistico mi sono posizionato al primo posto della graduatoria per l’insegnamento di Disegno. Alessandra Pioselli mi ha dato ulteriore fiducia con altri incarichi di responsabilità. L’Accademia di Belle Arti di Bergamo in questi dieci anni è stata un luogo a cui ho dato molto e che a sua volta mi ha dato moltissimo, sia dal punto di vista umano che artistico. Un luogo di confronto e di transito di artisti e curatori internazionali. La mostra alla Galleria Milano è stata un ulteriore passo e attestato di stima reciproca con Alessandra.
LB – L’orizzonte è il limbo che unisce e separa i due mondi, il labile confine dove terra e cielo s’incontrano. Il soggetto del tornado, protagonista della tua serie omonima, potrebbe essere definito come un orizzonte verticale?
FP – Più che un orizzonte verticale è un elemento fatto di polvere e vento che unisce il cielo e la terra, mi piace dire che il paesaggio perfetto è dove il nulla e l’infinito si toccano…
LB – Il tuo mi sembra un tentativo di accorciare le distanze. Ma qual è la tua definizione di lontananza?
FP – Il mio è un tentativo di conoscenza, che è sempre un avvicinamento. Tentare di ridisegnare la volta celeste e costruire strumenti per l’ascolto del cielo sono tentativi volti al fallimento ma al contempo sono atti poetici, esercizi d’ampiezza.
LB – Il tuo lavoro è composto non solo da disegni atmosferici, ma anche da fotografie, proiezioni video e sculture piuttosto particolari, che definisci protesi acustiche. Solitamente, per concentrarci di più sull’utilizzo degli altri sensi, chiudiamo gli occhi. Le tue opere, per essere meglio fruite, richiedono l’omissione della vista?
FP – Ovviamente non tutte, ma i primi “ascoltatori del cielo” erano i soldati che nel 1914, con rudimentali radar analogici (alcuni somiglianti a quadri sagomati, altri a forma di tromba), tentavano d’intercettare i rumori dei primi aerei nemici. Questi soldati erano ciechi.
LB – Come definiresti il rapporto che il tuo modo di fare arte ha con la musica?
FP – Strumentale. Sembra un gioco di parole, ma in realtà il rapporto con la musica è lontano, m’interessa di più il suono. Da qualche tempo sto collaborando con Lavorazioni Carni Rosse, un gruppo di musicisti, a un progetto molto interessante in cui il vento sarà protagonista, come nella performance Wind Scale presentata a BACO l’estate scorsa.
LB – So che ti piace concludere le argomentazioni con un’immagine evocativa di repertorio. Sarei curiosa di sapere con quale termineresti questa conversazione.
FP – Termino con questo soldato della marina militare italiana, su un’altana a Venezia, nel momento in cui sperimenta uno Sheraphone per intercettare la provenienza dei suoni dei motori degli aerei nemici. Questa immagine ha dato inizio a tutta la mia più recente ricerca.