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Ho migliaia di figli perché sono alla ricerca di mia sorella

Diciannove anni fa era un’avvocatessa 28enne focalizzata sul suo futuro, estremamente ligia al senso del dovere che la spingeva a lavorare tanto, a studiare incessantemente per passare l’esame da avvocato, per diventare notaio. E di sicuro non avrebbe nemmeno lontanamente immaginato di essere quello, o meglio, “chi” è ora.

Oggi Mariavittoria Rava è presidentessa di una delle Onlus più importanti d’Italia, la Fondazione Francesca Rava – NPH Italia, che aiuta l’infazia in condizioni di disagio in patria e nei paesi del Terzo e Quarto Mondo, ma soprattutto sta vivendo una seconda vita. Una nuova esistenza nata purtroppo da una tragedia, la perdita in un incidente stradale di Francesca, la sorella allora 26enne alla quale era molto legata. “Un dolore – racconta Mariavittoria – che mi ha azzerato totalmente: quella notte la mia vita era finita, non riuscivo a capire cosa fosse successo, non ero preparata, è stato scioccante… ho perso la voglia di vivere, sono tornata a casa dall’obitorio senza saper mettere in ordine i pensieri. Avevo perso la fede, ma ho iniziato a pregare in modo meccanico. Pensavo e ripensavo ai giochi che facevamo da bambine… era il periodo dei primi rapimenti: non eravamo una famiglia di interesse, ma fingevamo che una delle due scomparisse e che l’altra la cercasse. Fu allora che ci facemmo una promessa reciproca: qualsiasi cosa succeda, cerchiamoci per sempre! Quella notte non sapevo dove fosse finita e ho sentito di dover mantenere la promessa”.  

Il suo carattere l’ha aiutata?

Chi mi conosce bene dice non sono né un uomo né una donna, ma una grande rompiscatole, che ho in mente solo la mission e quello che voglio fare per i bambini, quindi divento un carrarmato, un martello pneumatico in quella direzione.

E’ sempre stata così forte e tenace?

Sono sempre stata socievole, mi è sempre piaciuto stare in mezzo alle persone, conoscerne di nuove, condividere esperienze. Da piccola avrei voluto tantissimo imparare a suonare uno strumento, ma ho ricevuto un’educazione iper severa che non lasciava spazio a molti svaghi. Ma di sicuro avevo già un carattere abbastanza deciso infatti ho studiato da sola le lingue straniere perché volevo riuscire a comunicare con tutti… Probabilmente questo carattere l’avevo anche allora, ma non ne ero proprio consapevole.

Dopo l’incidente di sua sorella, qual è stata la necessità che l’ha spinta a cambiare vita?

Quando Francesca è scomparsa sono tornata come bamina, sono ripartita da zero in tutto, anche nella fede e nei percorsi personali. Avevo il cuore e la mente rivolti a lei, ho iniziato a cercarla nelle parole delle persone, in quello che succedeva e pian piano la mia vita è cambiata.

E’ stato un processo lento o una scelta fatta a occhi chiusi?

E’ stato un meraviglioso cammino di conoscenza, di cosa vuol dire aiutare gli altri, essere vicini alle persone che soffrono in una condivisione universale: siamo tutti uguali.

Non è stata una decisione presa a tavolino, ma una scelta di cuore. Non ho rinunciato a nulla, semplicemente le mie priorità gradualmente sono cambiate, alcune cose prima importanti hanno perso valore, altre, alle quali non avevo mai pensato, ne hanno acquisito molto, moltissimo.

Come è successo?

Francesca, nonostante i molti impegni lavorativi, ogni anno andava una settimana a Lourdes ad accompagnare i malati.

Non le aveva mai chiesto di andare con lei?

No ed è il rammarico più grande. Lei era molto indipendente e umile, in tutto quello che la riguardava, e faceva volontariato silenziosamente: diceva che la rendeva felice ma purtroppo non mi aveva mai incoraggiato…

Forse non la vedeva pronta.

Di sicuro non rientrava nei miei piani… ma ora lo dico a tutte le persone che stimo e a cui voglio bene: le invito a venire con noi in prima linea, perché è un privilegio che ti permette di scoprire il senso della vita e conoscere persone meravigliose.

Quindi è iniziato tutto da Lourdes?

Nella confusione più totale ho accolto l’invito dell’amica di mia sorella ad andare a Lourdes con lei. Mi pareva un’assurdità: non c’ero mai stata con Francesca, perché sarei dovuta partire quella volta? Avevo la sensazione di fare un torto a mia sorella, ma alla fine ho capitolato. Già sul treno mi resi conto che i malati trovano la speranza, la forza di andare avanti grazie alla preghiera. Li accompagnavo a messa, dove incontrai un sacerdote messicano giovane che mi colpì: era pieno di energie, conosceva 5 lingue, aveva una spiritualità fortissima. Pensavo non l’avrei più rivisto invece scoprii che viveva a Milano.

Lo contattò?

Sì, mi si era riaccesa la fiammella; lui mi disse che non importava se avevo perso la fede, perché mentre riordinavo le idee e la mia vita, potevo fare qualcosa di utile: aiutare gli altri facendo quello che sapevo fare, l’avvocato”.

Un inizio soft quindi…

Casuale direi. E’ iniziata una serie di coincidenze, pazzesche e incredibili, forse dovute al fatto che ero aperta e desiderosa di ascoltare. Ero sempre alla ricerca di Francesca, con la mente, col cuore… Non ho potuto ignorarle. Diedi consulenza a una coppia, marito e moglie che volevano aprire un ufficio di raccolta fondi in Italia per Nuestros Pequeños Hermanos (I nostri piccoli fratelli), un’organizzazione umanitaria internazionale per l’infanzia, ma subito dopo lui perse il lavoro e così, nell’attesa che le condizioni si ristabilissero, mi chiesero di dare una mano.

Lo fece?

No. Da buona italiana diffidente, prima di decidere scelsi di fare un viaggio con mio marito, una settimana in Messico – era Pasqua – per vedere con i nostri occhi cosa facesse realmente quell’associazione. Andammo a visitare la prima casa NPH sorta nel 1954, l’origine di tutto il progetto.

E…?

Uno sconosciuto venne a prenderci di notte in albergo. Era buio. Saranno state le 4 del mattino e ci fece sedere su una panca in mezzo a un prato, non si vedeva nulla. Poi all’improvviso sentimmo tante piccole manine che ci toccavano, ci spingevano. Si fece giorno e quel posto si riempì di bambini, erano quasi ottocento. Fu un’esperienza molto toccante, un’emozione incredibile.

Cosa successe?

Fra il viaggio, il fuso orario e la mancata colazione sentivo una nausea molto forte. Si celebrava la messa di Pasqua e per tradizione locale si festeggiava con ciambelle e cioccolata calda. I bambini la pescavano con un bicchiere in giganteschi bidoni di latta. Ero affamata ma non volevo togliere il cibo ai piccoli. Uno di loro mi lesse negli occhi, infilò il braccio fino al gomito, si sporcò tutto e mi porse un bicchiere!

Poi ci accompagnarono a visitare la casa e arrivò una bimba da pochi giorni ospite della casa. Le chiesi di poterle scattare una fotografia ma lei si oppose categoricamente. “Voy a buscar a mi hermanita”. “Devo trovare la mia sorellina” disse e io sentii un nodo stringersi in gola: anche io ero alla ricerca di mia sorella. Lo interpretai come un messaggio di Francesca. Quando la trovò scoppiai a piangere: avranno avuto 3 e 4 anni ma erano unite già come piccole adulte, si proteggevano l’una l’altra. Questo è stato il primo segnale di quanto mi ha insegnato la famiglia NPH.

Se dovesse riassumerlo in poche parole?

Ho capito che la famiglia non è solo quella di sangue, ma qualcosa di più grande perché possono esserci più sorelle, più fratelli, più padri, più madri: una famiglia è fatta di legami straordinari creati dall’amore, fatti dall’energia positiva e contagiosa che c’è nelle persone.

Anche i rapporti di sangue vanno vissuti con uno spirito diverso perché si è tutti in cammino in questa vita, si è tutti fratelli e sorelle; bisogna guardarsi con un’apertura diversa. Ognuno ha un percorso costellato di eventi, anche negativi, ma ogni giorno c’è la possibilità di una svolta, perché ogni giorno basta a se stesso e il successivo è un giorno nuovo. Mi sono resa conto di quanto la vita sia preziosa. Per questo cerco sempre di chiudere bene la mia giornata, perché domani potrei non esserci.

Come ha reagito suo marito?

Mi ero sposata nel ’98, Francesca era mancata un anno dopo: mio marito aveva scelto una persona e poco dopo se ne ritrovava accanto un’altra, un bidone insomma! Lo ringrazio di aver accettato tutto ciò e di avermi seguita, trainato da coincidenze molto evidenti che anche lui non si è sentito di trascurare.

Il 2000 è stato l’anno della svolta.

Già, in Messico la nausea non era dovuta solo alla fame: Riccardo è nato con la Fondazione. Diciotto mesi dopo è arrivato Francesco.

Come ha vissuto la maternità?

Ho sempre pensato ai miei figli senza alcun senso del possesso: sono capitati a me ma sono anime, esseri da accompagnare nella vita, bisogna aiutarli a sbocciare. Sono una mamma anomala perché non ricordo peso e lunghezza di quando sono nati. Sono cose a cui non ho mai dato importanza.

Ha sempre viaggiato tanto. Come ha conciliato la famiglia con l’attività della Fondazione?

Mi sono sempre dedicata totalmente alla mia mission, riservando il tempo libero alla famiglia e sicuramente i miei figli ne hanno fatto le spese. A 3 anni Francesco mi chiese chi fossero i bambini NPH e quando gli risposi che erano quelli che vivevano senza i genitori, lui esclamò: “Allora sono anch’io un bambino di NPH!”.

Si rimprovera qualcosa?

Quando ho potuto li ho sempre portati con me, per stare con loro e perché imparassero subito a voler bene agli altri, perché dà grande gioia interiore. Magari ho esagerato, non lo so, ma ho sempre inculcato loro che prima di tutto vengono gli altri. Forse bisogna anche essere competitivi per sopravvivere ma voler bene ti permette di avere una vita più piena.

Ho avuto momenti di crisi perché ho dedicato la mia vita in modo totalizzante alla mission, ma posso dire che quel che ho sacrificato non è stato per capriccio ma per aiutare gli altri. E non me ne pento.

Come sono ora i rapporti con i suoi figli?

Hanno sempre vissuto e respirato il principio che regola la Fondazione e pensavo che da adolescenti sarebbero diventati dei contestatori. Ma non è successo. Ogni anno sono loro a chiedermi di poter fare volontariato ad Haiti.

Perché secondo lei?

Perché quest’esperienza ti dona una ricchezza infinita. I giovani d’oggi godono spesso di molti privilegi, ma fanno fatica a recepire i valori, a sentire dentro di sé il senso della vita.

E’ per questo che ha istituito i Campus?

Spero di contribuire a rendere migliori i giovani che hanno tutta la vita davanti. Spero capiscano che le cose materiali non devono essere un obiettivo, ma uno strumento così che possano acquisire una libertà, un’apertura mentale e di cuore che saranno un bagaglio inestimabile per qualsiasi esperienza dovranno affrontare nella vita.

Cosa si impara intervenendo sul campo?

Niente è più efficace dell’esperienza diretta, soprattutto quando conosci questo tipo di persone: la povertà ti obbliga a ridurre tutto all’osso; la vita e la morte sono compagne di giornata. Questa gente sa soffrire al massimo, senza timori e conformismi, e allo stesso modo sa gioire pienamente, anche delle piccole cose. Noi invece siamo abituati a contenerci, a nascondere la sofferenza, a non mostrare le emozioni, impegnati a realizzare un piano di vita studiato più per rispondere alle aspettative degli altri che alle nostre necessità, ai nostri desideri. A volte non sappiamo nemmeno di cosa poter gioire…

Qual è il principio della Fondazione?

Nasce dalla domanda “cosa faresti per tuo figlio”: fallo per i bambini che aiuti, cerca di dare loro il meglio, il massimo. Non “un poco” solo perché è comunque più di quel che hanno… Un principio che vale a qualsiasi età.

Quindi è come se lei avesse tantissimi figli…

Migliaia direi. Mi sento responsabile per tutti i bambini che incontro, mi sento mamma di migliaia di bambini ed è questa la ragione per cui non riesco mai a dire di no.

Qual è un suo grande desiderio?

Riuscire a trasmettere il messaggio che chiunque nel proprio piccolo può donare: da qualsiasi parola, da qualunque azione di una persona possono dipendere cambiamenti. Nella propria vita e nel mondo. Ognuno di noi può farlo.

Il suo suggerimento?

Tenetevi in ascolto. In tutto quello che ci accade o ci circonda c’è un’energia che va oltre le nostre tre dimensioni. Dobbiamo essere pronti a coglierla, perché è un’energia positiva disponibile a tutti. Può essere impegnativo e faticoso, ma se ci si sente responsabili di quello che si fa, cioè se si risponde agli eventi con abilità e mettendo in gioco i propri talenti e le proprie capacità, si vive pienamente.

E il suo obiettivo?

Siccome l’amore non finisce con la morte, cercherò Francesca fino alla fine.

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