Parola di Andrea Mastrovito, bergamasco trapiantato a New York, autore di opere che parlano…
Il linguaggio elettivo di Andrea Mastrovito è il disegno, che spesso applica a grandi installazioni, ma anche a video e performance. Le figure, spesso a grandezza naturale – oltre ai temi trattati che mescolano storia e mito alle questioni sociali attuali – contribuiscono a creare un rapporto diretto con la realtà di chi le osserva.
Fra i numerosi progetti ed esposizioni, nel corso dell’estate 2017 presenta a New York il suo primo lungometraggio, un film d’animazione interamente disegnato con matita e gomma: NYsferatu. Symphony of a Century, un riadattamento ai giorni nostri del Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau, ispirato a sua volta al Dracula di Bram Stoker.
Nel 2014 sempre a New York realizza Kickstarting, una performance in collaborazione con un gruppo di bambini residenti a Bushwick, un quartiere popolare e multietnico di Brooklyn, che è consistita nella realizzazione dell’opera permanente sulle pareti perimetrali del cortile della parrocchia di Saint Joseph. Mai come in questo caso il disegno è da intendersi in senso più ampio: per realizzarlo i bambini hanno preso a pallonate i muri, lasciando su di essi l’impronta del pallone da calcio.
Nel 2013 al Palazzo della Misericordia di Bergamo, sede odierna di BACO – Base Arte Contemporanea realizza L’Amore sacro e l’amor profano, un’installazione visiva e sonora che realizza tagliando e scavando il muro per riportarne alla luce le varie stratificazioni.
Laura Baffi – Ciao Andrea! Innanzitutto congratulazioni: so che sei da poco diventato papà. A tal proposito, per quanto possa essere difficile per un artista fare distinzioni fra vita e lavoro, come ti sembra si stiano conciliando le due parti?
Andrea Mastrovito – Sai, sin da ragazzo mi sono sempre occupato della mia famiglia d’origine e non ho mai fatto distinzioni fra vita e lavoro. Al momento il nuovo arrivato ci fa ridere moltissimo. Certo, è tutto più faticoso, difficile e nuovo, ma sinceramente, come mi disse Enzo Cucchi vent’anni fa durante un incontro all’Accademia di Belle Arti di Bergamo, le cose facili e che conosciamo già… Cosa le facciamo a fare?
LB – Da anni ti sei trasferito a New York. Cosa ti ha portato a inseguire il mito del sogno americano? Pensi che continuerai a vivere lontano dalla tua Bergamo, anche ora che la famiglia si è allargata?
AM – Ho sempre preferito vivere in provincia: Bergamo è provincia d’Italia, l’Italia stessa, ormai, è provincia (per quanto dorata) del mondo. Tuttavia una decina d’anni fa vinsi il New York Prize e cominciai a fare la spola con la Grande Mela. Essenzialmente il mio cuore è sempre in Italia, ma le possibilità che, pur con difficoltà enormi, si presentano in America sia per me che per mia moglie sono infinitamente più grandi che da noi.
Cosa faremo ora? Sicuramente vorrei bilanciare il tempo passato negli States col tempo passato a Bergamo, e penso che finché il bimbo non andrà a scuola potremmo farcela! Inoltre, altro piccolo obiettivo: riuscire a dargli la cittadinanza italiana! Essendo nato a New York, tra timbri, tribunali, certificati, convenzioni, riuscire a farlo riconoscere come italiano è piuttosto complesso…
LB – New York è stata anche la città d’esordio di NYsferatu. Symphony of a Century, che potremmo definire come la tua più grande impresa: stiamo parlando di più di 35.000 disegni animati. Il tour comincia con numerose serate nei parchi e nei musei newyorkesi che talvolta figurano nel film, e prosegue nel settembre 2017 con la prima europea alla Festa del Cinema di Roma. Sono in programma altre presentazioni in giro per l’Europa?
AM – NYsferatu poteva nascere solo a New York, davvero, non avrei mai neanche pensato a un’idea del genere se fossi restato ancorato al panorama artistico italiano. Questo è il regalo più prezioso che mi ha fatto l’America e, in generale, il viaggiare: pensare in grande, pensare che tutto si può fare.
Le prossime date? Il 17 gennaio al Grütli di Ginevra in occasione del vernissage del mio solo show da Art Bartschi & Cie, e dall’11 febbraio tutti i giorni sino ad aprile alla Kunsthalle di Osnabruck, in Germania, nella mia prima mostra museale tedesca: fra le altre grandi installazioni, proietteremo NYsferatu su un muro di 5.000 libri che hanno a che fare con tutte le paure del nostro tempo.
Poi da maggio partirà il tour italiano… E ci sono ancora tante date europee e americane a cui stiamo lavorando!
LB – Nonostante spesso il tuo lavoro sia ricco di riferimenti presi dal mondo del cinema, NYsferatu è il tuo primo film, un’esperienza del tutto nuova per te. Com’è stato calarsi nel ruolo di regista?
AM – Sinceramente è stato come… Allargare la famiglia. Anni fa incontrai una delle assistenti principali di William Kentridge, Kim Gunning, la quale mi spiegò come il clima che si respirava in studio era quello di una grande famiglia. Mi ci sono ritrovato: ho sempre cercato di avere rapporti di amicizia sinceri con chi mi aiuta, e questo film mi ha fatto conoscere decine di persone. A un certo punto, giornalmente, mi interfacciavo con circa 35 persone tra disegnatori, montatori, musicisti, organizzatori… E non abbiamo (quasi) mai litigato! Quindi più che regista mi son sentito “capofamiglia”.
Per quanto riguarda poi i festival del cinema e i red carpet, anche in quelle occasioni ho sempre specificato che NYsferatu va letto come opera, e non come film, e che quindi mi sento molto meno regista che artista.
LB – Si potrebbe dire che più che nei panni del regista ti sei calato nella parte del Conte Orlok, stavi chiuso nel tuo studio come un vampiro… Dopo più di tre anni di lavoro, finalmente la luce!
Ora, vedo che hai molto lavoro da fare: hai delle novità delle quali puoi darci delle anticipazioni?
AM – La cosa più complessa, una volta finito NYsferatu, è stato riprendere dei ritmi… Umani, appunto. Ci ho messo circa tre mesi per svuotarmi di tutte le scorie del film. È molto complesso dedicarsi anima e corpo a un solo progetto per anni e anni, e poi ricominciare tutto da capo con nuove idee: tutto sembra troppo semplice o troppo difficile, non si hanno più punti di riferimento. Comunque dopo qualche mese passato in studio a provare qualsiasi cosa, ho ripreso a guardarmi in giro – New York in questo senso è straordinaria. Soprattutto le ultime mostre viste al Metropolitan Museum of Art prima di rientrare in Italia (David Hockney, Edvard Munch, Michelangelo – quest’ultima una mostra pazzesca) mi hanno rigenerato riempiendomi di idee. Oltre ai due solo show a Ginevra e Osnabruck, nei prossimi mesi mi dedicherò a un altro progetto monstre, che ho a cuore e che al momento è ancora segreto. Diciamo che ne sentiremo parlare in primavera.
LB – La cosa che mi colpisce di più del tuo lavoro è la potenza delle tue immagini. Le figure non sono mai statiche, sono sempre impegnate a svolgere una qualche azione, e insieme creano un orizzonte dinamico. Emerge il fil rouge della tua ricerca artistica, che è, a mio parere, la narrativa. I tuoi lavori sono sempre molto belli da vedere, ma c’è di più: hanno qualcosa da dire. Le tue opere entrano a far parte della vita delle persone, entrano in contatto con la quotidianità.
Vorrei facessimo un salto indietro nel tempo, per parlare di un progetto realizzato sempre a New York, nel 2014: sto parlando di Kickstarting. Com’è stato collaborare con i bambini di un quartiere disagiato?
AM – Ah, sembrano passati vent’anni e invece era meno di quattro anni fa: se dovessi fare una scala delle esperienze più intense ed estenuanti, Kickstarting fa a gara con NYsferatu per il primo posto, ma considerando che è durata “solo” tre mesi, direi che come intensità è stata impareggiabile. Avrò perso tre anni di vita in quei tre mesi, d’altronde fu un progetto – come spesso succede – nato esclusivamente da una mia idea che portai avanti da solo con l’unica preziosa collaborazione di Don Vincenzo, all’epoca parroco di Saint Joseph, che mise a disposizione quel grande spazio abbandonato in cui realizzammo la performance e l’opera.
Il quartiere e i ragazzi erano molto tosti, è stato difficile inizialmente creare un dialogo ma devo dire che alla fine il loro entusiasmo mi ha ripagato di tutto, sebbene fossi estenuato fisicamente. Il ricordo più bello – dopo mesi passati in classe tra workshop e lezioni di storia dell’arte – è stato vedere dozzine di bambini ritornare nei due giorni di performance, sporcarsi tutti e giocare senza tregua per ore dipingendo il muro a pallonate. E persino fermarsi, volontariamente, a ripulire tutto!
Ogni volta che torno a trovarli mi abbracciano come se fossi uno di loro. Bellissimo, e bravissimi.
LB – Facciamo un ulteriore salto temporale al 2013, questa volta spostandoci a Bergamo. In una delle ex aule del Palazzo della Misericordia, più precisamente dove c’erano i pueri cantores, è fissa, scavata nel muro L’Amore sacro e l’amor profano. So che per realizzarla hai scelto un modello d’eccezione. Vuoi dirci di chi si tratta?
AM – Sì, uno dei modelli è mio nipote Nicolas. Spesso i miei nipotini rientrano nel mio lavoro, come d’altronde succede per molte persone che fan parte del mio quotidiano: come ti dicevo, vita e lavoro si incrociano continuamente, e anzi, ormai hanno perso i rispettivi confini.
Quell’installazione prevede tra l’altro una parte sonora: entrando nella sala, si fa scattare una fotocellula che fa partire l’Inno di Mameli cantato dai miei nipoti… Ma sulle note di Bocca di Rosa di De Andrè. Ci misi un paio di giorni per ottenere una buona registrazione, i ragazzi volevano giocare a calcio piuttosto che aiutarmi, d’altronde come biasimarli, io stesso – come asseriva il buon Albert Camus – preferisco sempre una partita di calcio a qualsiasi altra cosa.
Risultato? Ora i miei nipoti pensano che l’inno vada cantato proprio così, sulle note della canzone di De Andrè!
LB – Grazie Andrea, e in bocca al lupo per le prossime attività. Let me know!