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L’altro necessario

Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini nascono rispettivamente nel 1966 e 1962 a Milano. Dopo aver entrambi conseguito gli studi a Londra, si stabiliscono a Berlino, facendo la spola con l’Italia per insegnare Tecniche performative per le arti visive all’Accademia di Belle Arti di Bergamo.
La loro ricerca artistica verte sulle dinamiche sociali e relazionali, in particolar modo sulle questioni legate al nucleo famigliare – il loro, a testimonianza di quanto il lavoro possa aderire alla vita. Le tematiche da loro affrontate sono analizzate attraverso modalità espressive differenti: fotografia, video, installazione e soprattutto performance.
Fra le numerosissime mostre, fatte sia singolarmente che come duo, alla Fondazione Merz di Torino nel 2010 presentano Messico famigliare, un progetto che mira a liberare dal mito della famiglia ideale e che piuttosto ne esalta le diversità, che le rendono uniche e speciali, e che allo stesso tempo le legano tutte indistintamente. Il laboratorio Little boxes da loro coordinato identifica la processualità del progetto, aperto alle plurime interpretazioni provenienti dall’esterno: alle bambine e ai bambini è stato chiesto di arredare casa, di trasformare uno scatolone in un ambiente domestico. Apparentemente identiche e anonime all’esterno, all’interno gli scatoloni svelano colorati contenuti eterogenei. L’opera Messico famigliare in senso stretto consiste nell’installazione di una casetta rovesciata sulle cui pareti sono incise frasi derivate da luoghi comuni sul tema dell’adozione, pregiudizi sulle diversità. All’interno della casetta una registrazione della voce degli artisti racconta la loro esperienza di genitori adottivi come se fosse una fiaba.

Laura Baffi – Vorrei cominciare l’intervista con una domanda moto banale, più una curiosità: siete diventati prima coppia nella vita o nel lavoro? Da cosa è nata cosa?

Ottonella Mocellin, Nicola Pellegrini – E chi se ne ricorda più? Ci siamo conosciuti nel 1981, quando avevamo 15 e 19 anni…

LB – Da qualche anno siete diventati genitori di una bimba e un bimbo di un’altra nazionalità. Purtroppo il mito della famiglia “perfetta” è molto presente nella nostra società. Senza entrare nei dettagli, vi siete mai sentiti a disagio in quanto famiglia “mista”? Vi siete mai sentiti vittime dei luoghi comuni incisi sulle pareti di Messico famigliare?

OM, NP – Ogni tanto ci è successo, soprattutto quando vivevamo in Italia. Capitava che persone che non conoscevamo facessero commenti sui nostri figli davanti a loro, come se non ci fossero. Noi non ci siamo mai sentiti a disagio, perché siamo adulti e abbiamo gli strumenti per capire ed elaborare, però per loro è diverso. In generale le bambine e i bambini hanno bisogno di sentirsi come tutti gli altri, quindi i commenti, le domande, le curiosità, sono faticosi da gestire e provocano uno stress emotivo che si somma all’insicurezza di fondo che ogni bambina o bambino adottivo porta con sé dalla nascita, perché la sua storia (almeno nel caso dei nostri figli) comincia con un abbandono. Rosa Dao e Tito sanno da sempre di essere stati adottati, ma la loro storia è stata raccontata loro per gradi, sempre usando parole adatte alle loro età, a volte invece gli adulti si esprimono in maniera diretta e indelicata e questo può essere doloroso. In passato abbiamo avuto problemi anche alla scuola dell’infanzia che frequentava Rosa Dao, dove le maestre hanno dimostrato un razzismo latente, quasi inconscio, ma pur sempre offensivo. Questo sicuramente è uno dei motivi che ci ha spinti ad andare via dall’Italia. In ogni modo crediamo che nonostante ciò, sia Rosa Dao che Tito si stiano facendo le ossa, e speriamo di potergli dare tutti gli strumenti per potersela cavare alla grande nonostante la cosiddetta “ferita primaria”… Loro sono molto allegri!

LB – Messico famigliare è un’opera molto articolata. Parte integrante del progetto è stato il laboratorio Little boxes, in cui avete coinvolto le bambine e i bambini di una scuola d’infanzia, che hanno poi realizzato un breve filmato di ringraziamento in cui narrano la vostra storia (vostra e di Rosa Dao) dal loro punto di vista. Dev’essere stato molto emozionante per voi.

OM, NP – Collaboriamo spesso con altri. Abbiamo sempre considerato il nostro lavoro come un’area di scambio legata soprattutto alla sfera dell’emotività, un luogo d’incontro tra diversi punti di vista. Il nostro è un lavoro incentrato sul tema dell’identità, sul suo legame con la narrazione e sul labile confine tra biografia e autobiografia, quindi la collaborazione con altri è una pratica necessaria. Nel libro Tu che mi guardi tu che mi racconti, per una filosofia della narrazione Adriana Cavarero parla della forte connessione che esiste tra identità e narrazione. Contrapponendo l’ossessione della Filosofia con il definire cosa è l’Uomo, all’abilità della narrazione nel rivelare chi è qualcuno, Cavarero introduce il concetto del “sé narrabile con una storia unica”. Se la storia di ognuno è unica e irripetibile, questa storia è al contempo invisibile a chi la sta vivendo, poiché troppo coinvolta/o negli eventi che la determinano. Ognuno di noi, sapendo che la nostra vita lascerà una traccia, sente il forte desiderio di conoscere il racconto di sé che gli altri le/gli fanno, dando così un senso e un significato alla propria identità. Attraverso la restituzione di questi racconti di vita, l’altro diventa quindi “l’altro necessario”. Le nostre narrazioni sono spesso multiple e frammentate, ci piace confrontarci e cedere parte del controllo ad altre persone e questo comprende anche la categoria delle bambine e dei bambini. Tra i tanti laboratori con le scuole dell’infanzia che abbiamo fatto, per i quali ci siamo sempre ispirati alla pedagogia delle scuole di Reggio Emilia, incentrata sulla verbalizzazione, l’ascolto e la documentazione dei ragionamenti delle bambine e dei bambini, Little boxes è stato forse uno dei più riusciti: le casette hanno invaso la Fondazione Merz, rendendo vivo lo spazio della mostra. Il film d’animazione alla fine è stato un vero regalo.

LB – Bambine e bambini, è bene sottolinearlo, in quanto mi sembra di capire che la differenziazione e la non subordinazione al genere considerato predominante siano molto importanti per voi.

OM, NP – Partendo dal presupposto che il confronto con l’altro sia una pratica necessaria, così come da un desiderio di celebrare e indagare il tema della differenza, non solo sessuale, ma anche etnica, di appartenenza sociale, di ruolo all’interno della famiglia, etc., molti dei nostri lavori nascono da un processo di rispecchiamento con l’altro. Dicevamo prima che le nostre narrazioni sono spesso multiple e sempre duplici. Ogni nostro progetto contiene infatti almeno due punti di vista, che riflettono la natura duplice del nostro processo creativo.

LB – Nel vostro lavoro è fondamentale la memoria. Nelle vostre opere citate spesso alcuni componenti della vostra famiglia: questa evidente necessità di esternare e di condividere con il pubblico la sfera privata ha una funzione terapeutica per voi?

OM, NP – La memoria del passato è uno strumento indispensabile alla comprensione del presente. Siamo molto interessati alla memoria dei luoghi, così come alla memoria collettiva o a come questa si interseca con quella personale. In questo senso le storie delle nostre rispettive famiglie ci forniscono una lente attraverso cui osservare il passato del nostro paese, le questioni sociali, politiche, ma anche quelle più intime, legate alla sfera dell’emotività, che di conseguenza ci consentono di leggere e interpretare il presente. La comprensione del passato ha sempre una funzione anche terapeutica, quindi certamente esternare storie personali ha quella funzione, ma altrettanto quanto ascoltare le storie degli altri. Diciamo che secondo noi la pratica artistica in generale ha una funzione, non solo, ma anche, terapeutica. Infatti tocchiamo spesso tematiche scomode, come la conflittualità, il non detto, la disabilità, la malattia e anche la morte. Dal confronto fra il nostro vissuto con quelli degli altri, nascono queste narrazioni ibride, che stanno sul margine tra personale e collettivo, tra biografia e autobiografia, tra pubblico e privato, che sono diventate il nostro linguaggio.
Alcuni progetti come Some kind of solitude is measured out in you, You think you know me, but you haven’t got a clue e Ecco il guaio delle famiglie, come odiosi dottori sapevano esattamente dove faceva male, si sviluppano a partire da una serie d’interviste su questioni nodali per lo sviluppo di ogni identità, come il rapporto con l’altro sesso o la comunicazione all’interno della famiglia, fatte ai membri dello staff del Museo che ospitava la mostra. Le storie raccolte vengono poi raccontate dalle nostre voci, che, garantendo l’anonimato di chi si narra, aggiungono, proprio anche tramite l’uso della voce più che ad una libera interpretazione dei testi, una dimensione emotiva legata ai nostri personali vissuti.

LB – La voce è il vostro linguaggio elettivo, per fare un gioco di parole. Essa assume ruolo di mediazione, configurandosi come una traduzione non forzata. Mi rivolgo a Ottonella: in alcuni dei tuoi lavori parli a bassa voce. Che valore attribuisci al racconto sussurrato?

OM, NP – Come dicevamo prima la voce ci permette di alzare la temperatura emotiva del lavoro, perché rispetto alla parola scritta il racconto parlato esprime, oltre al senso del testo, anche l’unicità della voce che lo racconta. Siamo interessati dunque alla musicalità della parola o, per dirla come Calvino, al piacere di dare una forma alle onde sonore di una o più voci, ma non solo: il fatto che le storie siano raccontate da noi permette a chi si racconta, da un lato di mantenere una distanza e dall’altro di poter ascoltare la propria storia raccontata da qualcun altro. L’uso della voce è un tassello della collaborazione, della condivisione. Se, come dicevamo per l’altro, il fatto che la sua storia personale venga raccontata da noi aiuta a mantenere una distanza, lo stesso processo porta noi ad avvicinarci ai nostri interlocutori. In altre parole, la voce ci permette, anche se per un momento, di metterci nei panni di un’altra o di un altro. Anche questa pratica di rispecchiamento, che è un processo empatico, ha una funzione terapeutica.
Per quando riguarda il racconto sussurrato è una scelta estetica che si inscrive nel pensiero femminista e in particolar modo nella critica al concetto di autore e all’idea di monumento. Il racconto sussurrato ha per me un valore diametralmente opposto a quello dello slogan e del racconto gridato tipici di un’arte spettacolare e sensazionalista…

LB – So che state lavorando a un progetto molto grosso che prende in esame il particolare rapporto che intercorre tra Berlino e il Vietnam, in cui sarete protagonisti insieme a Rosa Dao e Tito. Avreste voglia di svelarci qualcosa?

OM, NP – The wall between us fills my hearth with intolerable grief nasce da una riflessione sulla storia recente di Berlino attraverso il racconto della comunità vietnamita presente nella città.
Tra le tante comunità straniere esistenti a Berlino, quella dei vietnamiti riassume forse al meglio i 40 anni in cui la città è stata divisa, e narra un capitolo del racconto a due facce di questo avamposto della Guerra Fredda.
La migrazione vietnamita nella città inizia con la fine della guerra in Vietnam e la conseguente diaspora vietnamita, ma si suddivide in due esodi e narrazioni ben diversi: a ovest arrivarono alcuni profughi provenienti dal Vietnam del sud, i cosiddetti “Boat People”, fuggiti dall’avanzata delle truppe comuniste di Hanoi all’epoca della nazionalizzazione delle imprese e della collettivizzazione delle terre. A est, più o meno negli stessi anni, giunsero i “Vertragsarbeiter”, lavoratori a contratto a tempo limitato, provenienti da quello che ormai era diventato un paese fratello.
Seguendo una metodologia per noi ormai consueta, stiamo sviluppando il progetto partendo da una serie d’interviste fatte a membri della comunità. I racconti raccolti verranno poi montati insieme e riletti dalle nostre voci, formando una narrazione multipla, frammentata e corale.
Il progetto comprende anche un video che documenta, tra le altre cose, una visionaria navigazione che abbiamo fatto attraverso alcuni luoghi della città. Una piccola barca a vela, montata su un carrello trainato da una piccola auto della DDR, viaggia lungo le strade su cui sorgeva il muro, circumnavigando il perimetro di quella che un tempo era Berlino Ovest. Il video, come molti dei nostri lavori, consiste anche in una performance nello spazio urbano. Sulla barca c’è la nostra famiglia, composta da noi due, i nostri due figli Dao, nata ad Hanoi e Tito, nato a Ho Chi Minh City e il nostro cane Bika. Come spesso accade nel nostro processo creativo, siamo partiti da una questione personale per raccontare una storia più ampia, che intende riflettere su questioni identitarie, sociali e politiche della nostra storia recente.
Riflettendo sulla natura della nostra famiglia e sulla nostra condizione di stranieri nel paese in cui abitiamo, abbiamo cercato di interrogarci su questioni come quella della migrazione e dei diritti degli stranieri, dello spaesamento legato alla non appartenenza a un luogo, della difficoltà di comunicazione legata alla lingua, del processo di accettazione delle differenze.
La simbologia del muro, come quella del viaggio, appartengono inoltre anche ad una dimensione più intima ed esistenziale.

LB – Ringrazio voi per gli approfondimenti, ma soprattutto Rosa Dao e Tito per avermi concesso questa chiacchierata con mamma e papà. È stato un piacere!

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